martedì 22 gennaio 2013

Energia: quale futuro?

L'energia solare ha un potenziale immenso. In media un metro quadrato di terreno negli USA riceve in un'ora 190 kcal di energia completamente gratis. Se si moltiplica questo per la superficie dei tetti di un intero paese, anche piovoso come l'Inghilterra, i pannelli solari potrebbero generare più elettricità di quella che si consuma. In realtà se appena lo 0,4 per cento della terra fosse ricoperta di pannelli solari con un'efficienza del 15% si otterrebbe abbastanza elettricità. 
Dove il sole non splende, in genere soffia il vento che ha una resa energetica più o meno uguale.


Le compagnie petrolifere lo sanno bene. "Con il solare si potrebbe avere più energia di quella usata nel mondo". Parola di un dirigente della Shell.
Nonostante la promessa di fonti rinnovabili, secondo la International Energy Agency meno del 3 per cento dell'energia mondiale è solare o eolica. Poiché gli investimenti sono così ridotti, se paragonati a quelli per l'estrazione dei combustibili fossili, anche le tecnologie sono costose. I calcoli della ExxonMobil dicono che oggi (17 febbraio 2003) ci vogliono da 100 a 200 dollari per trasformare la luce del sole nella quantità di energia ottenibile con 25 dollari di petrolio.


Grazie al progresso il prezzo delle energie rinnovabili non sale oltre certi limiti, ma gli investimenti non riescono a star dietro alla ricerca nel settore dei combustibili fossili. Negli USA gli scienziati che sviluppano nuove tecnologie fotovoltaiche devono cavarsela con 50-70 milioni di dollari all'anno, le briciole dei 3 miliardi di dollari elargite ai loro colleghi che lavorano su gas e petrolio.
Per il momento le compagnie petrolifere non ritengono che le energie rinnovabili possano rientrare nei loro interessi o almeno non le ritengono degne dell'impegno che invece dedicano al petrolio. Alcune hanno comunque fatto modesti investimenti in questo senso.



La divisione per l'energia solare della BP è il secondo produttore al mondo. Shell possiede una centrale eolica tra le prime dieci al mondo per dimensioni, ma secondo l'Economist non si tratterebbe di un autentico impegno imprenditoriale, quanto piuttosto di una scommessa a margine, "nel caso la transizione alle energie pulite dovesse cominciare prima del previsto".
Grandi compagnie come la BP e Shell sarebbero in grado di rendere l'energia solare accessibile ai consumatori, causando un fuggi-fuggi dai combustibili fossili. Già decenni fa il ministro saudita del petrolio ammonì i suoi colleghi dell'OPEC: "Se costringiamo i paesi Occidentali a investire ingenti capitali nella ricerca di fonti alternative di energia, lo faranno e impiegheranno non più di una decina di anni."



Se si pensa ai tempi in cui i contadini scremavano il petrolio che galleggiava sui corsi d'acqua, oggi cavarlo dalle viscere della terra è diventato un processo a elevato capitale energetico, che richiede enormi quantità di cemento e acciaio, macchinari e un esercito di operai. Anche se i manager del settore calcolano i costi di tutte le operazioni sottraendoli dalla prevista pioggia di introiti provenienti dai barili che si aspettano di dissotterrare, non tengono conto delle quantità di risorse energetiche non rinnovabili che consumano in rapporto a quello che producono.
E' chiaro che la società nel suo complesso deve investire in fonti di energia che ne forniscano di più di quanta se ne consuma. L'estrazione del ferro, la fusione dell'acciaio, la trasformazione della roccia in cemento, la costruzione delle trivelle e il nutrimento degli operai richiedono moltissima energia anche se non è la compagnia petrolifera a pagare tutto di tasca propria.



Quando si cominciò a sfruttare i giacimenti petroliferi più superficiali, questi erano più ricchi di energia netta; il rapporto tra energia prodotta ed energia impiegata nella produzione era intorno a 100 a 1 o anche più. Negli anni settanta, via via che i giacimenti si riducevano, diventavano più profondi e irraggiungibili (e quindi era necessaria più energia per estrarre il greggio), il rapporto si ridusse drasticamente fino a 23 a 1 e oggi è in continua discesa.
Nella classifica dei ritorni più alti seguono l'energia idraulica con 11 a 1, il carbone con 9 a 1 e il nucleare con 4 a 1.
Tuttavia questi profitti sono ancora enormi se paragonati a quelli di fonti di energia più abbondanti, come il sole e il vento. I combustibili fossili sono un concentrato di energia solare. Secondo gli analisti, la luce solare diretta fornisce 1,9 unità di energia per ogni unità di energia consumata nella produzione. Anche l'energia eolica dà ritorni simili.
Il silicio per i pannelli solari e l'alluminio per le pale eoliche non mancano nella crosta terrestre, ma l'estrazione e la lavorazione richiedono energia e anche i migliori pannelli fotovoltaici non riescono  a convertire in elettricità più del 30 per cento della luce che li colpisce.



Per questa ragione anche i personaggi più consapevoli ed obbiettivi tra quelli legati all'industri petrolifera nutrono un profondo disprezzo per qualunque fonte di energia che non si appoggi su gigantesche scavatrici. Kenneth Deffeyes scrive che "né il solare, né l'eolico possono rappresentare "una soluzione immediata al problema dell'energia". Lord John Brown della BP concordava: "Non c'è ancora una fonte di energia rinnovabile o alternativa proponibile sul mercato che possa soddisfare la domanda."

E' possibile che l'analisi dei costi e della resa energetica da sole non diano una misura precisa del valore degli investimenti nel solare o nell'eolico e nelle altre fonti di energia rinnovabile. In un modo o nell'altro la società deve coprire i costi dei danni causati dai mutamenti climatici, dallo smog, dalle fuoriuscite di petrolio e della violenza delle guerre e della corruzione scatenate dalla continua ricerca del profitto. E' improbabile che le energie rinnovabili impongano tributi analoghi. Sole, vento, silicio, alluminio sono risorse distribuite più o meno equamente su tutto il pianeta. Una società fondata sull'energia rinnovabile sarebbe forse meno opulenta e molto meno complessa perché il PIL non crescerebbe incessantemente e le industrie a elevato consumo di energia subirebbero un brusco arresto; ma una società a crescita lenta forse sarebbe anche più equa.

Se le iniziative energetiche sono un indicatore attendibile di quanto accadrà in futuro, cioè se il futuro dell'energia è scritto oggi dai leader dei paesi industrializzati, non avremo pannelli solari e centrali eoliche ma celle a combustibile, miniere di carbone, centrali nucleari ed etanolo. Tutte queste fonti sono pubblicizzate in maniera accattivante quanto ingannevole per la loro efficienza, pulizia e sostenibilità. Ma ciascuna, a suo modo, assicurerà il protrarsi del consumo del petrolio ed emissioni di anidride carbonica sempre crescenti.



Nel gennaio 2003  Bush promosse una nuova tecnologia salutata da tutti come una svolta: la cella a combustibile.
Le celle a combustibile generano elettricità a partire da idrogeno e ossigeno, formando semplicemente acqua. L'idrogeno non manca: è l'elemento più abbondante dell'universo, ma sulla terra l'idrogeno libero è raro. Se non sono imprigionati negli idrocarburi o nell'acqua, gli atomi di idrogeno sono talmente leggeri che fuggono fuori dell'atmosfera. Per poter sfruttare l'energia dell'idrogeno è necessario prima consumarne parecchia per estrarlo dalle molecole in cui si trova (dall'acqua o dagli idrocarburi).



L'entusiasmo per l'idrogeno cominciò a crescere fin dagli anni novanta. Nel 1999 l'Islanda annunciò l'obbiettivo di diventare la prima società al mondo fondata sull'idrogeno. Qualche anno dopo la Commissione europea annunciò un piano da 2 miliardi di dollari che avrebbe promosso la tecnologia in Europa allo scopo di riuscire a rispettare gli impegni sottoscritti con il Protocollo di Kyoto.
Questi annunci colmarono gli ambientalisti di speranze per un futuro senza carbonio. L'industria del petrolio può anche colare a picco, diceva qualcuno. "Le implicazioni commerciali della transizione all'idrogeno sarebbero sconvolgenti" scrisse nel 2001 lo Worldwatch Institute. Le auto a celle a combustibile promettevano un futuro libero da smog, da autostrade rumorose e da tubi di scappamento che sputano carbonio. Inoltre le auto ad idrogeno sarebbero di gran lunga più efficienti di quelle con motore a combustione.



Ma da dove sarebbe venuto tutto quell'idrogeno? Per molti non era chiaro. "Vuol dire che le nostre auto funzioneranno ad acqua" dichiararono i più. Non proprio! Sarà anche vero che le auto a idrogeno producono acqua pura, ma gli impianti per l'estrazione dell'idrogeno possono essere sporchi quanto la più puzzolente centrale a carbone. L'industria petrolifera produce idrogeno da decenni: lo estrae dal petrolio per produrre fertilizzanti e composti chimici.
Nel 1997 la Chrysler presentò la sua auto a celle a combustibile che estraeva l'idrogeno dalla benzina. Invece di essere bruciata, la benzina veniva vaporizzata e mescolata con vapore d'acqua, scindendosi e ricomponendosi in anidride carbonica e idrogeno. Le compagnie petrolifere avrebbero continuato ad estrarre e raffinare il greggio e a rifornire le stazioni di servizio. I distributori avrebbero continuato a vendere benzina agli automobilisti.



L'unica differenza stava nel processo subito dal carburante dentro il veicolo. La procedura era complessa ed emetteva comunque più di tre quarti dell'anidride carbonica emessa da un comune motore a combustione, ben lontano dal mezzo di trasporto ad emissioni zero che gli ambientalisti immaginavano.
Oggi sono in molti a credere che l'idrogeno sia solo uno specchietto per le allodole, usato per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dai cambiamenti immediati che potrebbero rivelarsi più efficienti dal punto di vista delle emissioni di carbonio, ma che sono meno interessanti per l'industria. I gruppi ambientalisti sostengono che le case automobilistiche e le compagnie petrolifere spingono per la scelta dell'idrogeno perché sanno che passeranno molti decenni prima di avere un sistema davvero utilizzabile.

Il presidente degli USA, Bush, aveva un altro piano per dimostrare come l'economia dell'idrogeno avrebbe potuto funzionare: estraendolo dal carbone. Nel febbraio 2003, annunciò lo stanziamento di un miliardo di dollari per la costruzione di una nuova struttura chiamata FUTUREGEN che avrebbe prodotto idrogeno senza emettere gas serra. La struttura avrebbe funzionato a carbone, nonostante il fatto che il carbone, costituito da carbonio, non contenesse idrogeno, a differenza del metano o degli altri idrocarburi.
Nonostante il nome FUTUREGEN avrebbe convertito il carbone in idrogeno gassoso, un'applicazione nient'affatto futuristica.


Tale processo prevede il trattamento del carbone con vapore acqueo a temperatura elevata, producendo ossido di carbonio e idrogeno.


L'ossido di carbonio prodotto nel primo stadio viene poi trattato con altro vapore acqueo a 400-500 su ossidi di ferro e cobalto ottenendo anidride carbonica e idrogeno.



Complessivamente il processo di gassificazione del carbone si basa su questa reazione e l'anidride carbonica prodotta è uguale a quella ottenuta dalla combustione dello stesso quantitativo di carbone.

La "brillante" innovazione del piano consisteva nel sequestro dell'anidride carbonica prodotta, che di solito esce dalle ciminiere insieme agli altri inquinanti. FUTUREGEN avrebbe imbottigliato e accumulato le emissioni chissà come e dove.
I ricercatori stipendiati dalla ExxonMobil non erano i soli a scervellarsi per capire che fine far fare all'anidride carbonica in eccesso. Una parte poteva essere iniettata nei pozzi petroliferi in esaurimento, un'altra poteva essere stoccata nelle miniere di carbone abbandonate e in altre formazioni geologiche, ma poteva essere che non ci fosse abbastanza spazio, quindi rimanevano le profondità degli oceani.
"Sta cominciando la seconda era del carbone" affermava un ricercatore del National Energy Technology Laboratory, un laboratorio governativo sovvenzionato dall'amministrazione Bush. "Non ha senso chiedersi se si tratti di una buona idea o no, perché accadrà in ogni caso" aggiunse.
L'industria del carbone aveva contribuito a mandare Bush alla Casa Bianca.



Ma non era questo che poteva eclissare il petrolio. Per estrarre il carbone si brucia petrolio. Oggi le società minerarie, ridotta all'osso la manodopera, impiegano gigantesche macchine per demolire intere montagne, macchine che arrivano a consumare 400 litri di gasolio in un'ora.

Un'altra prospettiva è l'uso dell'etanolo.
L'etanolo o alcool etilico è ottenuto dalla fermentazione dei cereali. I coltivatori di cereali del Midwest avevano proposto l'etanolo come fonte di energia rinnovabile e sicura, in alternativa al petrolio, fin dagli anni Settanta. Se il suo uso come carburante prendesse piede, i cereali non sarebbero più solo utilizzati come alimento per uomini e animali. In un mondo con un miliardo di persone che hanno fame, potrebbero essere impiegati per nutrire le auto americane e sommare profitti ai profitti.
Ma l'industria petrolifera non si è preoccupata più di tanto. L'etanolo contiene una certa quantità di acqua in soluzione e questo crea numerosi problemi per le tubature, le saldature, i materiali, i filtri, inoltre l'alcool è corrosivo per gomma e plastica e metalli.



Nel 1997, quando furono presentate le prime auto ad etanolo, negli USA era solo lo 0.3% delle stazioni di servizio a vendere il carburante a base di questo alcool, che comunque costava più della benzina. Le case automobilistiche continuarono a costruire auto ibride: a benzina e etanolo, publicizzando la migliore efficienza dell'etanolo rispetto alla benzina e di conseguenza un minor consumo.
Uno studio della University of California ha dimostrato che coltivare cereali per produrre etanolo richiede la stessa quantità di combustibili fossili che va a rimpiazzare. Gli automobilisti americani risparmierebbero 250.000 barili di petrolio al giorno ma agli agricoltori e alle industrie per la lavorazione dei cereali ne servirebbero 214.000 per fornire loro etanolo.




Mentre toglieva di mezzo i fastidiosi moscerini che minacciavano la sua supremazia (celle a combustibile ed etanolo) l'industria petrolifera accoglieva a braccia aperte il metano. Sebbene richieda ingenti investimenti e rischi sembra che l'industria petrolifera veda nel metano la chiave di crescita durante il lungo periodo di declino del petrolio.
La Shell spera che nel 2025 la domanda di gas naturale superi quella del petrolio. I prossimi due decenni, ha detto il presidente Philip Watts, rappresenteranno "una finestra di opportunità" per traghettare la clientela dalle riserve di petrolio in esaurimento a quelle relativamente più abbondanti del gas naturale.



In genere il gas si trova insieme al petrolio, ma a differenza di quest'ultimo è difficile da piazzare sul mercato. Non può essere trasportato in cisterne convenzionali perché anche piccole quantità si espandono e le riempiono. Ci vogliono anni per costruire le condutture speciali, ad alta pressione, che servono a trasportarlo dalle fabbriche alle case. Quindi se non vale la pena di investire, il gas che accompagna il petrolio, è stato considerato un semplice prodotto di scarto. 
La soluzione era bruciarlo.



Man mano che certi paesi prendevano provvedimenti contro questo spreco inquinante ed altri si preparavano ai tagli imposti dal protocollo di Kyoto, il mercato del gas naturale cominciò a sembrare più interessante. Molti depositi di combustibili fossili appena scoperti contenevano poco petrolio ma gas in grandi quantità. E così i ricercatori dell'industria di settore si sono dati da fare per studiare il modo di comprimerlo, e raffreddarlo in modo da riuscire a trasportarlo e a venderlo.
Naturalmente per fornire più gas ai consumatori occidentali sarebbe stato necessario costruire nuove e costose infrastrutture, tra cui cisterne speciali, porti dedicati e impianti di lavorazione. Il gas doveva essere raffreddato fino ad una temperatura alla quale diventa liquido.



Negli ultimi dieci anni l'economia di scala è migliorata e, secondo gli analisti, le spese di trasporto del gas naturale liquefatto, sono calate di più del 25%.
Se la diffusione del gas naturale dovesse aumentare ancora, le conseguenze della sua diminuzione o scomparsa sarebbero disastrose almeno quanto quelle della scomparsa del petrolio. In Texas nel 1998, per mantenere costante la produzione si è dovuto trivellare 4.000 nuovi pozzi. Nel Golfo del Messico tra il 1996 e il 2000 il numero delle trivelle dedicate al gas è salita del 40% ma la produzione non è aumentata. Gli USA si appoggiano sempre più al Canada per il gas naturale ma presto subiranno la concorrenza dell'industria estrattiva delle sabbie bituminose.
Nella regione delle Montagne Rocciose i pozzi del gas naturale stanno diffondendosi come la gramigna. L'amministrazione Bush nel 2004 ha stanziato sussidi per un miliardo di dollari alle compagnie petrolifere disposte a continuare la ricerca del gas naturale nelle profondità del Golfo del Messico.



Tra non molto comincerà anche la battaglia per appropriarsi di territori stranieri in nome del gas. Come per il petrolio i giacimenti più grandi ancora esistenti si trovano in Nigeria, Angola, Venezuela e Indonesia. "Stiamo scoprendo che il gas naturale è quasi importante quanto il petrolio" commentava un un analista del settore energetico. "Una volta capito questo, si tratterà di gestire le implicazioni geopolitiche dell'importazione del gas naturale dalle varie parti del mondo."




L'industria punta sul fatto che il gas naturale è un'alternativa "pulita" al greggio. Il metano, con un solo atomo di carbonio per quattro di idrogeno, quando viene bruciato, a parità di calore prodotto, emette meno anidride carbonica.


Ma un uso intensivo del gas naturale potrebbe essere nocivo per il clima quanto la combustione del petrolio.
Il metano, nell'atmosfera, assorbe più calore dell'anidride carbonica, se anche una piccola quantità si diffonde - incombusta - nell'aria, può intensificare il surriscaldamento globale, ventitré volte di più della stessa quantità di anidride carbonica. Jeremy Legget osserva che "una fuoriuscita di gas del 3% durante i processi di estrazione, trasporto, distribuzione e utilizzo azzererebbe i vantaggi del basso contenuto di carbonio rispetto al petrolio. Se le perdite ammontassero al doppio, il metano non riuscirebbe a battere nemmeno il carbone."


 (tratto da "Oro nero" di Sonia Shah)






teoria di Olduvai

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